giovedì 22 settembre 2011

INTRODUZIONE

Non ho tentato e fallito,
nient'altro che questo
per tutta la vita...
eppure non basta...
occorre tentare farlo
di nuovo...e meglio
Samuel Beckett




Gli intellettuali sono i primi a fuggire, subito dopo i topi, e molto prima delle puttane. Il verso di Majakovskij è una ragione sufficiente per non parlare di intellettuali, di talenti e della fuga dei cervelli in questo libro. Perché nella desolante, e fondamentalmente ipocrita, formula della «fuga dei cervelli» si riflette la disillusione e la rassegnazione delle classi dirigenti che hanno facilitato, diluito e infine naturalizzato il genocidio delle nuove generazioni.

L’invenzione di questa espressione ha accompagnato la liquidazione dell’università italiana e le lamentazioni funebri sull’eccellenza dei ricercatori, giovani e meno giovani, costretti ad esportare il loro «capitale umano» all’estero, facendo perdere cifre consistenti alla madre patria. Nel 2010 un’indagine commissionata dalla Fondazione Lilly e dalla Fondazione Cariplo aveva quantificato la perdita in quasi 4 miliardi di euro. Il dato è stato ricavato dai profitti accumulati in vent’anni dalle 356 domande di brevetti depositate da ricercatori italiani emigrati. A supporto della tesi sono stati citati i dati del rapporto Almalaurea del 2010 secondo i quali i laureati specialistici biennali che lavorano all’estero a un anno dal titolo sono il 4,5% (erano il 3% nel 2009). Il 29,5% provengono dalla facoltà di ingegneria e solo il 12% dal settore politico-sociale. Un neolaureato italiano all’estero guadagna 1568 euro, mentre nel paese d’origine 1054 euro.

Pur così circostanziati, questi dati rivelano un fenomeno assolutamente minoritario e per di più impossibile da quantificare con certezza poiché i registri dell’Aire, l´anagrafe della popolazione italiana residente all´estero, riporta un aumento dei residenti all’estero (da 2.842.450 a 3.443.768 nel 2004), ma non fornisce i dati disaggregati per titoli di studio. Il censimento dell’Istat del 2001 aveva rivelato che i laureati in fuga tra il 1996 e il 2000 erano 2700 all’anno. Una quantità che potrà essere senz’altro aumentata nel frattempo, ma è davvero un mistero capire come la cifra dei «cervelli in fuga» sia potuta arrivare a 2 milioni, come più volte è stato ribadito negli ultimi tempi. È chiaro che l’espressione anglosassone «brain drain» è diventata l’occasione per inventare una realtà parallela che lavora nel torbido, lì dove nasce il tipico sentimento italico dell’autocompatimento e della nostalgia, in un paese dove il futuro non è mai esistito.

In realtà, questa retorica è il risultato della sistematica rimozione delle potenzialità politiche, intellettuali e affettive di tutti i lavoratori, giovani e meno giovani, dipendenti, precari o autonomi, laureati o diplomati nel nostro paese. Ed è anche il risultato di una manipolazione delle analisi sulla produzione immateriale basata sui saperi, la conoscenza e le relazioni, centrata solo su alcuni ambiti della ricerca universitaria (preferibilmente quella medica e quella informatica), a dispetto della più ampia ed articolata economia del «terziario avanzato», del lavoro indipendente e dell’intelligenza diffusa.

Il «cervello» universitario sarebbe dunque l’unico qualificato a fuggire, mentre la maggioranza – soprattutto quella non universitaria – che resta nel paese della vergogna non è meritevole di un riconoscimento postumo, prima dell’apocalisse. Il successo di questo trucco è presto spiegato: esso rappresenta il rovescio del ritornello nazionale sulla precarietà, immancabilmente rappresentata dai sindacati, dai governi e dalle cattedre universitarie come dalle inchieste giornalistiche televisive di maggior successo da dieci anni a questa parte, come una forma di vita povera e sfortunata che, per diventare meno povera e un po’ più «civile», può solo mettersi alla catena di montaggio; sedere nello scantinato di un ministero, in regione, comune, provincia, comunità montana, o in un qualsiasi ente pubblico. Fare il servo conviene, soprattutto quando ministri pensionati, abituati alla vita nobile del parastato, consigliano di smettere di studiare e riscoprire il fascino onorevole di un lavoro da imbianchino. Competenze, ingegno, volontà e disponibilità servono a sposare un miliardario.

Questo libro propone una genealogia antica e contemporanea del Quinto Stato, un concetto che riteniamo sia molto più ampio del lavoro della conoscenza, che ne costituisce una parte importante. La sua andatura evoca cortocircuiti temporali alla ricerca di un nuovo immaginario e azzarda fughe in avanti e ritorni su precedenti sentieri interrotti.

Soprattutto questo libro parla del furore. In primo luogo contro noi stessi. Perché è il furore l’unica matrice del cambiamento, l’inizio dell’autotrasformazione, la liberazione dai peccati degli altri. Il furore non si presenta però solo in una forma intimistica, e tantomeno in una religiosa, come accade nel dionisismo. La sua originaria espressione si oppone ai culti ufficiali, rappresenta l’affrancamento da quell’ordine mostruosamente civile che ha creato il nuovo genocidio italiano.

Noi sappiamo chi sono i responsabili. Noi conosciamo i colpevoli. In questo libro non troverete i loro nomi, perché li conosciamo tutti, uno per uno, ma ne riconoscerete le figure e le loro indegne funzioni. Il furore è l’espressione della rabbia degna e dell’odio contro un mondo organizzato sul principio della disperazione e della perdita di tutto. Ma è anche l’espressione del furore divino in cui Platone riconosceva la vera conoscenza di dio, che per noi è quella del contatto con la vita in comune e delle sue potenzialità. La furia dei cervelli è infine l’espressione di una potenza femminile che non è quella distruttrice di Medea, ma quella della creazione di una nuova conoscenza e di una nuova vita.

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