sabato 11 agosto 2012

ITALIA 2035: LA RIVOLTA (1)


Il futuro del paese più "meritocratico" d'Europa, tra vent'anni.  Con o senza euro, con una o più generazioni perdute, la crisi è costituente e oggi la direzione è presa: in un paese senza istruzione né produzione, i laureati e i diplomati si iscrivono ai sindacati dei lavori gratuito, i migranti a quelli del lavoro servile. Apologo, in tre atti, su una resistenza e un exit.


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Il 1° maggio 2035 il ministero della Pubblica istruzione è stato devastato da un incendio doloso. Il ministro assassinato. Fu lui il grande artefice che rivoluzionò la repubblica e diede all'educazione il posto che le spetta in un'economia avanzata fondata sulla democrazia del merito. Il lutto della nazione fu grande. Le agitazioni continuarono nei giorni successivi. Uno sciopero generale dei mezzi pubblici bloccò il paese, mentre l'astensione spontanea di tutti i laureati iscritti ai sindacati dei lavori domestici turbò la vita familiare di una società che da poco aveva iniziato ad apprezzare l'onorabilità dei lavori servili e gratuiti.



In un drammatico discorso alle camere, il presidente del Consiglio, che aveva appena compiuto novantasette anni ed era giunto al suo trentottesimo anno di governo, confessò tutto il suo turbamento in merito agli eventi che stavano sconvolgendo un'epoca pacifica e remissiva. Per la prima volta dopo una generazione, il progetto che aveva risollevato le sorti di un paese destinato al declino era stato messo in crisi da azioni criminali e terroristiche. Oggi, disse il presidente con voce spezzata, esiste un pericolo chiaro e immediato per lo Stato. La rivolta spontanea minaccia di proiettare l'Italia fuori dal ranking mondiale, causando un serio problema di identità. Già da molto tempo il paese occupava le ultime posizioni delle classifiche di produttività, efficienza e trasparenza, ma aveva raggiunto questo risultato in un clima di serena determinazione imposto dalla  pace sociale. Promise sanzioni durissime. I colpevoli sarebbero stati eliminati dai circuiti dei lavori servili e proiettati in quelli gratuiti o schiavistici. Nel suo franco discorso, il presidente del Consiglio attribuì le ragioni del tumulto a non meglio precisate insufficienze amministrative, escludendo che i rivoltosi volessero tornare a lavorare e a produrre.


Del resto ciò sarebbe stato impossibile perché, proprio in quegli ultimi mesi, il processo di deindustrializzazione e di dealfabetizzazione era stato concluso da una serie di riforme che avevano liquidato il mercato del lavoro e il sistema dell'istruzione pubblica. Il presidente accusò gli insorti di un esagerato  culto del narcisismo e della superbia, sostenendo che le loro sconsiderate azioni erano ispirate da letture disorientanti risalente alla Grande Crisi del 2008 che nessuno era riuscito a impedire. Grazie a campagne di dissuasione di massa, il governo era riuscito a rendere attraenti e moderni i lavori domestici. Sempre più numerosi laureati, lavoratori parasubordinati di cultura letteraria medio-bassa, per non parlare dei ricercatori che un tempo avevano rivendicato una formazione scientifica, avevano finalmente accettato di lavorare nell'indotto delle pulizie degli uffici, della revisione delle targhe o della manutenzione dei tombini. Per loro era stato creato, senza conflitti tra poveri, un mercato del lavoro domestico parallelo a quello dei lavoratori immigrati, che nel frattempo avevano raggiunto la ragguardevole cifra di 10 milioni ed erano stati destinati ai lavori servili.

A quel punto le opposizioni insorsero. Il loro capo ricordò che quei rivoltosi – pur rimproverando loro tutta la gravità dei gesti – erano troppo numerosi per entrare tutti all'inferno. Il loro non era un peccato contro il Dio, ma un'insurrezione provocata dalla rabbia per il declassamento, per la frustrazione di vivere in un mondo senza tutele né garanzie e per il tradimento delle legittime aspettative. Per loro non c'era più un ruolo, anche se modesto e intermedio, da occupare nella società. Il governo aveva fallito tutte le riforme, come dimostrava l'ultimo rapporto della commissione bicamerale di inchiesta sull'intelligenza nazionale che registrava un drastico calo del quoziente intellettivo della popolazione negli ultimi dieci anni.

(...)

Mentre l'opposizione ribolliva di indignazione, negando il legame tra dequalificazione della formazione e regolamentazione neoschiavistica del mercato del lavoro avviata quarant'anni prima, prese la parola il ministro dell'Interno, uomo di rinomata prudenza. Non nascose, quel vecchio saggio, di ignorare il significato della rivolta. Solo gli storici di domani la comprenderanno, e forse nemmeno loro saranno concordi nell'interpretarla. A noi che siamo ancora così vicini ai fatti, aggiunse il ministro, non resta che valutare con freddezza gli orientamenti dei rivoltosi. È certo che la loro intenzione di creare un'alleanza interclassista, volta a ricomporre le esigenze dei lavoratori dipendenti con quelle degli indipendenti – e con questa definizione egli volle raccogliere tutte le persone che non svolgono un lavoro di tipo subordinato –, non durerà a lungo. Pur essendo tutti declassati e sfiduciati, la provenienza sociale e le mansioni dei lavoratori sono diverse, e gli interessi comuni sono estremamente modesti. Come tutti, anche loro sono concorrenti che vogliono spolpare l'osso prima che suoni la campanella.

Nel 2015 la riforma della pubblica amministrazione, della scuola e dell'università sulla base del merito e della competenza era entrata in vigore in tutta Europa. In Italia, ricordò il ministro, questo provvedimento aveva ridotto drasticamente il numero dei posti a disposizione per gli aspiranti provenienti dal ceto medio, tradizionalmente arrogante e malformato. Il livellamento verso il basso dell'apparato statale ridusse le ambizioni personali e finalmente convinse questa parte di società a adeguarsi alla realtà. Ai figli della piccola e media borghesia a svolgere determinati lavori, ma non ad avere un lavoro, era stata preclusa ogni speranza di carriera nello Stato, come nelle professioni. Alla classe dei bramini superstite, vera colonna del patto sociale che governa il paese, era stata riservata una corsia preferenziale per restare in servizio anche dopo la pensione, grazie a una serie di contratti onorari che li teneva legati allo Stato fino alla morte. La stabilità fu comunque garantita dall'aumento della speranza di vita, ottenuto anche grazie a tecnologie di rianimazione artificiale che permettono al cervello di sopravvivere alla morte corporea. L'età dei rivoltosi, tutti ultrasessantenni, e la colpa sociale dovuta al fallimento di una vita, sono elementi che soffocheranno la rivolta. Questa sarà l'ultima generazione a ribellarsi. Queste sono persone che non hanno avuto tempo di riprodursi e portano sulle spalle un'umiliazione lunga una vita.

Le parole del ministro dell'Interno ammutolirono le camere. Dopo un iniziale sbandamento, le opposizioni scelsero l'aventino e annunciarono uno sciopero dalle attività parlamentari. Qualcuno nel governo non credette però alle parole del ministro dell'Interno e commissionò in segreto un rapporto sulle ragioni dell'insurrezione. Poteva trattarsi di un risentimento tutt'altro che passeggero, che rischiava di contaminare molti altri Stati membri dell'Unione Europea, dove si stavano già alzando i primi fuochi della rivolta.

(...)



Roberto Ciccarelli

(1/continua)

  

La seconda parte: Italia 2035. servire il merito

La terza parte: Italia 2035: exit

(La versione completa del racconto è pubblicata in 2035: fuga dalla precarietà)

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