lunedì 1 settembre 2014

SCHIAVI ALLA BIENNALE DEL CINEMA DI VENEZIA

Claudia Boscolo

Venezia, terra di nessuno. Vita da somministrati in un grande evento, perché il lavoro non conta e quel poco che c'è è una benedizione. Il lavoro culturale, i laureati in lettere alla mostra del cinema. Chi è addetto all’accoglienza dei divi del cinema, degli artisti e dei giornalisti di tutto il mondo è sfruttato ogni limite possibile

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Per chi vive in laguna i due appuntamenti più importanti dell’anno non sono gran cosa. Si ripete ogni anno sempre più stanco il rituale delle vernici della Biennale e del passaggio delle stelle del cinema al Lido. Per lo più diverte incappare in qualche star, ma per chi conduce una vita normale questo periodo dell’anno è né più né meno che un inferno.

Cercasi laureati in lettere
Venezia, città contenuta e delicatissima per la sua caratteristica di creatura nata sull’acqua, soggetta all’abuso del passaggio delle grandi navi e calpestata ogni anno da venti milioni di turisti (così ha calcolato il Comune), non riceve molto in cambio di questa violenza continua. I turisti sono per lo più passanti, visitatori di un giorno che si portano il pranzo da fuori e non sfruttano le risorse turistiche offerte dalla città. Ai più, l’epoca della Biennale causa stress e un senso di invasione per il sovraccarico dei turisti e lo stato di eccezione che si crea in tutta l’isola. Lo stato di assedio è percepibile, i vaporetti sono strapieni e in genere i due grossi eventi della Biennale creano più fastidi che benefici ai residenti.

Ma esiste una categoria per cui la macchina della Biennale rappresenta una opportunità di reddito, peraltro molto rara in laguna. Si tratta di studenti e laureati che desiderano entrare nell’ambiente blindato del lavoro culturale in varie mansioni, una occasione per farsi le ossa in un grosso ufficio stampa con compiti anche modesti, spesso di pura accoglienza, che però aggiungono una voce importante al curriculum vitae e permettono non solo di sbarcare il lunario per qualche mese, ma di presentarsi altrove contando su un’esperienza spendibile in più contesti lavorativi.

Avere prestato servizio nel sistema della Biennale è una buona carta da giocarsi, permette di esplorare da vicino un mastodonte per altri versi inavvicinabile, quello della più grande e famosa esibizione di arte, architettura e cinema del mondo.

 Ciò che resta della costruzione del Nuovo Palazzo del Cinema
Appalti e subappalti di forza lavoro
 Il mastodonte offre lavoro – seppure per un periodo di tempo limitato – a centinaia di persone nei più svariati settori. Si verifica, a Venezia, una sorta di transumanza, per cui lavoratori della cultura e dell’arte si trasferiscono nella città sull’acqua per qualche mese durante gli eventi, per poi lasciarla quando tutto chiude. I pochissimi impiegati a tempo indeterminato per la Biennale sono dipendenti della Fondazione. Tutti gli altri vengono reclutati da agenzie di somministrazione del lavoro a cui la Fondazione ha concesso in subappalto la fornitura per tutte le mansioni durante il periodo di apertura della Mostra. In questo modo, la Fondazione non si assume gli oneri e la responsabilità del personale che di fatto tiene in piedi tutta la baracca, senza cui non aprirebbe neppure i cancelli alla mattina né venderebbe un solo biglietto.

In attesa dei concorsi e della riapertura delle graduatorie nel settore scolastico e accademico, fra una supplenza e l’altra, neo laureati in materie umanistiche che cercano di tenersi occupati vengono selezionati per l’ufficio stampa della Biennale. Il quadro che emerge anche solo da una breve conversazione con questi addetti è sconfortante da tutti i punti di vista. La quasi totalità della forza lavoro impiegata nell’enorme front desk di entrambe le sezioni (arte e cinema) della Biennale, cioè gli addetti agli accrediti alla stampa italiana ed estera, e che si occupano anche di preparare materialmente le cartelle stampa da distribuire ai giornalisti, fino a qualche tempo fa veniva reclutata attraverso la presentazione del curriculum vitae ai referenti degli accrediti italiani ed esteri e al capo dell’ufficio stampa, i quali selezionavano le decine di addetti di cui la Biennale si serve in base ai titoli e alle competenze – in genere laureati in materie umanistiche con precedenti esperienze, anche brevi, di front office.

Venezia, il cratere del Nuovo Palazzo del Cinema
Vita da somministrati
Oggi la Fondazione ha appaltato la fornitura di personale a una agenzia privata di somministrazione di lavoro, alla quale ha girato l’elenco dei lavoratori già assunti negli anni precedenti che il capo dell’ufficio stampa intendeva richiamare. Si tratta quindi a tutti gli effetti di un processo di reclutamento fittizio nella grande maggioranza dei casi, e solo laddove non si reimpiegava la forza lavoro della stagione precedente.

Vista la brevità dei contratti dovuta alla natura stagionale della Biennale, il lavoro in questione per legge dovrebbe essere regolato da un contratto di lavoro stagionale, cioè un lavoro dipendente a tutti gli effetti che rientra nel più ampio spettro del lavoro a tempo determinato e regolato dal DL 368/2001, un tipo di lavoro che dà quindi accesso ai contributi previdenziali, diritto al riposo settimanale e all’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti, come tutti i lavoratori subordinati di quei settori che operano solo in determinati periodi dell’anno.

Anche la retribuzione minima dovrebbe rispettare quella dei lavoratori stagionali. Invece tutti gli addetti all’ufficio stampa della Biennale, oltre a venire “somministrati” dall’agenzia interinale a cui la Biennale ha subappaltato la gestione del personale, sono impiegati in un lavoro di fatto dipendente, con un orario di lavoro da rispettare, una postazione in cui essere presente, delle mansioni di tipo amministrativo, con contratti di collaborazione a progetto, i famigerati co.co.pro introdotti a completamento del pacchetto Treu.

La Biennale quindi accetta di considerare un lavoro stagionale come un “progetto” di cui nessuno comprende le finalità, visto che l’obiettivo dell’ufficio stampa consiste nell’accogliere i giornalisti, fornire loro il materiale per scrivere i loro articoli sull’evento, consegnare loro gli accrediti stampa, fornire tutte le informazioni indispensabili alla stampa italiana ed estera per poter muoversi all’interno della Biennale senza alcuna difficoltà e trovando gli eventi ai quali intendono partecipare. Non c’è alcun progetto da completare in tutto ciò, si tratta semplicemente di essere presenti al desk durante un orario stabilito e completare il proprio turno di lavoro, che nei momenti di punta, cioè nei giorni precedenti alle vernici, può raggiungere le dieci ore.

Gli addetti al termine del loro “progetto” sono costretti a consegnare una relazione finale, in cui descrivono in cosa è consistito questo progetto che non c’è, per cui si richiede loro anche uno sforzo di creatività e fantasia in più, le quali d’altronde non dovrebbero mancargli, visto che sono laureati in materie umanistiche!

Lo sfruttamento nel grande evento
A quegli addetti che hanno lavorato in maniera particolarmente brillante viene chiesto di rimanere o vengono richiamati la stagione successiva. Solo che secondo la normativa italiana, esiste un termine di 36 mesi di durata massima del rapporto di lavoro a tempo determinato, e in questo termine vanno calcolati anche i periodi nei quali il lavoratore ha prestato la propria opera in regime di somministrazione di lavoro per mansioni equivalenti. Si crea quindi la situazione per cui quegli addetti a cui la Biennale chiederebbe volentieri di rimanere perché hanno acquisito la sveltezza e le competenze adatte a far funzionare bene il front desk anche nei momenti di massima affluenza, vengono invitati ad aprire la partita Iva, cosicché risultino lavoratori autonomi.

Se non accettano questo passaggio non vengono richiamati. Ecco che si crea un folle continuo ricambio di personale per cui questo lavoro rimane una fonte di reddito occasionale per neo-laureati su cui è impossibile pensare di pianificare un futuro. In tutto ciò, osservazioni o richieste riguardo la retribuzione portano sistematicamente all’interruzione del rapporto di lavoro. Qualsiasi richiesta anche solo di pura informazione che riguardi l’aspetto del trattamento economico è resa impossibile dalla minaccia continua di essere allontanati. Qualsiasi lamentela sul trattamento subito sul posto di lavoro anche. Gli straordinari non esistono, neppure nei giorni precedenti le vernici, quando il lavoro accelera in maniera insostenibile e gli addetti sono costretti a prolungare nelle ore serali la loro permanenza nella sede degli accrediti. Lo sfruttamento all’interno del sistema della Biennale è all’ordine del giorno, nessuno ci trova nulla di strano.

Venezia, manifestazione 27 agosto 2014, globalproject
Laureati nella terra di nessuno
Il fatto che la Biennale crei del lavoro, in un luogo che ormai è terra di nessuno, viene percepito come una benedizione. Cercare del lavoro, qualsiasi lavoro, con una laurea in una disciplina umanistica viene ritenuto un azzardo, una follia, solo chi proviene da una famiglia ricca può permettersi il lusso di laurearsi in lettere, ben sapendo che a Venezia non lavorerà mai, e se proprio desidera farlo, dovrà andare via. Per cui la Biennale è a tutt’oggi percepita da chi desidera rimanere a vivere nella più importante città d’arte italiana come l’unico datore di lavoro possibile, volendo rimanere nel campo dell’arte, del cinema e della cultura.

Concorsi non ne vengono banditi dalla fine degli anni ’90, chi è stato assunto con contratti di lavoro a tempo indeterminato in seguito alle graduatorie stilate ai tempi dell’ultimo concorso vive trincerato una torre inscalfibile, per cui la qualità del lavoro che svolge ogni giorno non viene valutata né controllata da nessuno. Il fatto che queste creature sempre più distanti dalla realtà, questi pochi vincitori di concorsi pubblici siano anche incaricati di dirigere e valutare il lavoro della manovalanza che di fatto tiene in piedi il sistema Biennale per una retribuzione da fame, viene ormai percepito ormai come insostenibile da parte di coloro a cui è affidata con contratti inqualificabili la parte più pesante del lavoro, e quella senza la quale semplicemente la Biennale non potrebbe ogni anno aprire i battenti ai suoi milioni di visitatori.

Come scrive Silvia Jop in La mostra del cinema vista dal buco, a proposito della incuria dei luoghi fisici in cui si svolge la 71° Mostra del Cinema, “la mancanza di cura, l’incapacità di saper coltivare uno sguardo ampio in grado non solo di nutrire chi fa e produce cultura ma anche di divorare la cultura che viene prodotta, dando la possibilità a ognuno di cibarsene, sta frammentando in modo sempre più violento i corpi ormai secchi e inariditi dei luoghi e degli uomini e delle donne che li abitano”.

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