venerdì 14 novembre 2014

STRIKE! SCIOPERO SOCIALE PER UN'ALTRA IDEA DI LAVORO, CURA E VITA

Zerocalcare per #scioperosociale
Giuseppe Allegri

*** Strike! oggi è #scioperosociale x un'altra idea di lavoro, cura e vita, parafrasando il Jobs Act
***



Come un mantra ossessivo e compulsivo, insieme con l'autunno, arriva a compimento l'ennesima riforma del mercato del lavoro, in Italia. Da vent'anni, sempre la stessa storia.


Il ventennio malefico della precarietà istituzionalizzata
E c'è sempre una coppia in ballo: oggi Poletti-Renzi. Ieri Treu-Damiano, relatori della l. 92/2012, meglio nota come Riforma del lavoro Fornero, dal titolo tristemente inadeguato: Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita. Visto che in oltre due anni crescerà solo la disoccupazione.

L'altro ieri c'era un'altra coppia ancora: sempre Tiziano Treu, questa volta in compagnia di Lamberto Dini Presidente del Consiglio (la primavera 1995 del Pacchetto Treu; poi la creazione della Gestione Separata INPS per Partite Iva non ordiniste e tutte le forme del lavoro intermittente, precario, flessibile; quindi la successiva l. 196/1997, Norme in materia di promozione dell'occupazione, nel senso di una sua sempre più precaria condizione).

Ne La furia dei cervelli (manifestolibri, 2011) abbiamo definito gli anni novanta di queste odiose riforme come la decade malefica.


Tornando al compimento del ventennio, oggi, il primo atto della coppia Poletti-Renzi è stato il Jobs Act primaverile: la l. 78, del 16 maggio 2014, con titolo sempre all'altezza: recante disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell'occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese. È la normativa che ha liberalizzato i contratti a termine di tre anni, “limitando” i rinnovi fino a un numero di cinque. Peccato che i contratti riguardino la mansione e non la titolarità personale del contratto: sicché si cambierà di mansione per proseguire di rinnovi illimitati. La precarietà è stata così completamente istituzionalizzata.

Ora siamo al Jobs Act atto secondo, attualmente in discussione alla Camera: un Disegno di Legge delega che comprende altre cinque deleghe da adottare nei prossimi anni, sotto il logorroico titolo Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro. Un unico articolo, lungo otto cartelle, contenente 14 commi e praticamente un alfabeto di lettere a specificare i sotto-commi. É l'incubo permanente di creare lavoro attraverso riforme normative. Sono invece apprendisti stregoni che producono esattamente il contrario: maggiore insicurezza, disoccupazione, burocrazia, miseria, ricatti, sfruttamento.   


Strike!
È contro questo immenso processo di nefasta elefantiasi normativa che lo sciopero sociale – il social strike – del 14 novembre si muove. Per prospettare un'altra idea di lavoro, cura e vita (parafrasando la delega governativa), ma soprattutto un'altra idea di società, in Italia, come in Europa. Approfittando anche di una critica propositiva alla Legge di stabilità

Per questo è il caso di fare davvero il verso al titolo della legge delega e provare a presentare cinque punti qualificanti un orizzonte di concreta innovazione sociale e istituzionale. Anche per svelare l'arretratezza del progetto Renzi-Poletti, falsi detentori di un marchio di innovazione e rottamazione del passato, e invece reali oscurantisti che si schierano contro le conquiste di un modello sociale europeo di tutela di un'esistenza libera e dignitosa, che il nostro Paese non ha mai conosciuto.


Per la tutela di tutte le molteplici forme dei lavori
Una riforma sociale in materia di riordino dei rapporti di lavoro (come recita il testo della delega) che sia realmente trasformativa dell'esistente deve introdurre un principio universale di tutela di tutte le forme di lavoro, prestazione e attività: subordinate, salariate, autonome, indipendenti; a tempo indeterminato, flessibili, precarie, intermittenti. Per rifiutare il gioco al ribasso (una vera e propria lotta tra poveri), che vuole opporre i non garantiti contro i garantiti è la dignità e la libertà delle persone nelle loro attività lavorative che deve essere tutelata.

Qui si può – e si deve – connettere una lettura non nostalgica del testo costituzionale con le innovazioni apportate dal diritto sociale e del lavoro più garantista in giro per l'Europa nell'ultimo trentennio e che non hanno minimamente toccato il nostro Paese.    

Da una parte i princìpi costituzionali contenuti negli articoli 1, 4, 36 e 38 possono essere letti dando un'interpretazione ampia e inclusiva di garanzia e tutela di tutte le forme del lavoro, “senza aggettivi”, proprio perché ciascun “lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa” (articolo 36 Cost.). È il lavoro senza aggettivi come istituto giuridico al quale si raccordano le garanzie fondamentali (per dirla con l'insegnamento di Massimo D'Antona, 1996). Sono i diritti sociali fondamentali che accompagnano le persone lungo tutto il loro iter professionale, lavorativo, anche di lavori non di mercato, attività di formazione ed autoformazione (Alain Supiot, Au-delà de l'emploi, 1999).


È questo il punto di incontro che permette di tenere insieme la “cittadella assediata del lavoro salariato” con tutto il proliferare di condizioni di lavoro escluse da qualsiasi garanzia, ma rifiutando l'erosione complessiva dei diritti e il ricatto dei padri contro i figli

Qui si uniscono tutte le frammentate forme del lavoro, sempre più impoverito, precario, intermittente, flessibile, a volte gratuito, sottopagato, che sfocia in condizioni di disoccupazione e/o sottoccupazione e che unisce partite IVA, con precari-e, lavoratrici della cultura e della conoscenza, con giovani professionisti di ordini professionali (avvocati, architetti, ingegneri, etc.), freelance e contrattisti di ogni tipo e mansione, over-40enni e 50enni oramai espulsi dal “sedicente” mercato del lavoro, dipendenti PA sempre più marginalizzati, insegnanti sempre più sfiduciati, traduttrici, archeologi, addetti ai servizi e alla logistica e via procedendo nelle sempre maggiori condizioni di working poor.


Riforma dei Centri per l'impiego, contro il Workfare selettivo, clientelare e discriminatorio
Come recita ancora il titolo della delega, altro tema tristemente annoso nel nostro ordinamento è la faticosa arretratezza dei servizi per il lavoro e delle politiche attive. Questo sarebbe il luogo principale dove realizzare un incontro virtuoso tra cittadinanze e amministrazione pubblica, come si sostiene anche nel punto 11 della piattaforma di ACT!

Il cuore di una vera, concreta riforma della PA che restituisca credibilità ai servizi pubblici e fiducia alle cittadinanze, a cominciare dall'erogazione di servizi che valorizzino l'autodeterminazione delle persone, rispetto alla deprimente attuale condizione dei centri per l'impiego: depressivi tanto per gli impiegati che vi lavorano, quanto per gli sventurati avventori alla ricerca di quell'impossibile incontro tra domanda e offerta di lavoro. 

È questo il luogo dove invertire la tendenza europea, e ancor più italica, a imporre un Workfare sempre più selettivo, clientelare e vessatorio, rispetto alla visione di un Welfare universale, inclusivo, di cittadinanza attiva e promozione di un'esistenza che investa sulla vocazione personale di ciascun individuo.


Per un nuovo Welfare a partire da ammortizzatori sociali universali, contro la miseria della Nuova ASpI
Per questo il punto successivo non può che riguardare la previsione di un Welfare realmente universale, che tuteli la persona lungo tutto l'arco della propria esistenza e che promuova condizioni favorevoli alla realizzazione individuale e allo sviluppo sociale, economico e culturale dell'intera società. 

Qui è necessario demistificare la retorica universalistica della Nuova Assicurazione Sociale per l'Impiego (modifica della precedente ASpI introdotta da Fornero), che nella Legge di Stabilità viene finanziata solamente con i 2 miliardi di euro della precedente Cassa integrazione in deroga (Cig in deroga: pagata annualmente dalla fiscalità generale), cifra che è ben lontana dal permettere la tutela di tutte le persone in disoccupazione/inoccupazione. 

Anche qui non si tratta di scendere al ricatto della lotta tra Cassa integrazione vs. sussidio universale di disoccupazione. Si tratta di introdurre quello che non si è mai fatto in Italia: ammortizzatori sociali universali che tutelino la persona e la sua libera scelta lavorativa e non più o meno occulti finanziamenti statali che passano per una contrattazione tra rappresentanze padronali, sociali e istituzionali spesso più interessate a una logica spartitoria che alla tutela delle persone e dei territori dove sono collocate le aziende.  


Per il diritto al Reddito Minimo Garantito (RMG)
Questo è il terreno sul quale l'arretratezza delle tutele sociali italiane fa il paio con l'arretratezza di pensiero e di azione dell'attuale Governo. É dal 1992, con la Raccomandazione n. 441, che “l'Europa ci chiede” di introdurre una misura di tutela della dignità umana a partire dal RMG (l'Italia insieme alla Grecia è l'unico Paese della vecchia Europa a 15 a non prevedere una tale misura). Nel Parlamento italiano giacciono tre diverse proposte di legge (PD, SEL, M5S) sul RMG, con l'ulteriore presenza di una iniziativa legislativa popolare

E nella Legge di Stabilità si sono trovati i 10 miliardi di euro per rendere permanente la misura degli 80 euro. È quindi una scelta politica che pensa sia sufficiente provare a sostenere solo una parte del ceto medio in difficoltà, quando da una razionalizzazione della spesa sociale esistente, partendo proprio dalla cifra base  di 10 miliardi, sarebbe possibile prevedere una prima, ampia, platea di beneficiari di un RMG che permetta di superare la soglia di povertà relativa e tuteli davvero le persone in difficoltà: anche intermittenti, precari-e, partite IVA con redditi bassi.  


E non si tratta di barattare la stabilità del posto di lavoro, l'occupazione, con l'offerta di un reddito minimo e di un sussidio universale, poiché l'Italia ha già da decenni un alto livello di flessibilità e contemporaneamente un Welfare tra i più iniqui, oltre che i valori massimi riguardo alla disoccupazione. È anzi questa l'occasione per rimuovere due artificiosi pregiudizi. Da una parte l'odioso luogo comune che proprio qui in Italia ha sempre contrapposto la garanzia del reddito alla retorica della difesa dei posti di lavoro, ma non delle persone. 

Dati alla mano, tutti i Paesi dell'«altra Europa» (quella con il reddito minimo) hanno migliori tassi di occupazione e maggiori tutele per le persone senza occupazione

Dall'altra si smonta il luogo comune sul costo del reddito minimo, ricordandoci dei 30 miliardi di euro (fonte Censis 2011) spesi annualmente per le pensioni di invalidità, troppo spesso «strumento di consenso clientelare», a scapito delle persone realmente bisognose di tutele, ma di fatto escluse da un accesso che richiede il coinvolgimento di veri e propri «micro-imprenditori del consenso», generando un abuso di false pensioni di invalidità di circa dieci miliardi di euro. Cifra sufficiente per introdurre una prima forma di reddito minimo anche in Italia. Sempre qualora ci fosse la volontà politica di farlo: per rendere indipendenti le persone e con una maggiore fiducia verso le istituzioni.

Perché la garanzia di un reddito e di un Welfare universalistico favorisce l'autonomia e il benessere delle persone e di una società. Non si tratta (solo) di lotta alla povertà, ma di promozione della libertà individuale e di migliori condizioni di vita per tutti. È un investimento che le istituzioni pubbliche fanno sulle persone e sulla collettività. Per evitare i ricatti della miseria e della povertà, che altrimenti generano paternalismi, dipendenza, clientelismi, corruzione, sfruttamento, malavita.


Per l'Europa sociale e solidale
E certo che il passaggio decisivo sarà quello del rilancio di un progetto di solidarietà paneuropea. Ma chi lo metterà in campo? Quale coalizione continentale possibile per arginare il “diritto europeo dell'emergenza” imposto dal duo Merkel-Bundesbank? «Mettere subito sul tavolo un progetto di unione federale europea, che sia fiscale e politica»: questo dovrebbe essere l'impegno continentale per i prossimi mesi. Così ammoniva Thomas Piketty (autore del successo internazionale, prima francese e poi anglosassone, Il capitalismo nel XXI secolo, recentemente tradotto in Italia da Bompiani) in una intervista uscita su La Repubblica dello scorso 22 settembre. 

Il rilancio dell'integrazione politica continentale deve fare leva sulla necessità di realizzare anche un'Europa sociale, con politiche pubbliche anti-cicliche, in grado di innescare un radicale cambiamento rispetto alle restrittive politiche di austerity adottate finora, che hanno solamente peggiorato le condizioni dell'Eurozona e dell'Unione, immersi in un modello economico-sociale che mescola declino economico e speculazioni della finanza, producendo una società disuguale, frammentata e disorientata, per dirla con le parole usate dal Premio Nobel Joseph Stiglitz nella sua lezione tenuta alla Camera dei Deputati il 23 settembre.

Qui manca davvero una classe dirigente europea all'altezza della situazione ed è da inetti della politica il fatto che Matteo Renzi abbia completamente sciupato il semestre italiano di presidenza europea. Ma per fortuna continua a sedimentarsi una consapevolezza europeista dei movimenti, nelle reti tra città e sperimentazioni, che proprio a partire dal reddito di base e dal salario minimo europeo parte per rendere operativa la suggestione politica che un’altra Europa è possibile, praticabile e fattibile.

Per una nuova idea di società: cooperazione, mutualismo, federalismo
Nel pieno delle lotte contro le politiche governative e contro l’affermazione dei modelli dettati da quell’economia dell’evento che, oggi, ha EXPO2015 come propria massima manifestazione, lavoriamo a costituire un’alternativa reale, concreta e praticabile di nuovi modelli sociali e produttivi, ispirati alla cooperazione, al mutualismo e alle economie solidali”. 

Così si conclude l'appello Strike X Culture degli spazi occupati e indipendenti di produzione culturale. E questo è il cuore di un'altra visione di società, che abbiamo provato a definire anche nel nostro Il quinto stato. Perché il lavoro indipendente è il nostro futuro. Precari, autonomi, free lance per una nuova società (Ponte alle Grazie, 2013). 

Si tratta di prendere sul serio la ricchezza culturale, economica e sociale di un largo pezzo di società che prova a sperimentare coalizioni sociali e territoriali, reti di cooperazione tra pari, nuove istituzioni di autogoverno territoriale, forme di impresa collaborativa nei settori culturali e della produzione artistica, dell'innovazione tecnologica, di promozione sociale, con spazi di coworking e condivisione di prospettive mutualistiche tra nuove e vecchie generazioni di lavoratori e lavoratrici indipendenti: dall'artigianato tradizionale ai FabLab

È la ricchezza di un processo che affonda nella lunga tradizione dell'“incivilimento italico”, attraverso patti federativi, leghe, mutue sociali. Da Romagnosi e Cattaneo, a Olivetti e al lavoro autonomo di seconda generazione. È l'invenzione collettiva di una nuova società: dal basso, paritaria, inclusiva, produttrice e redistributrice di ricchezza, che dovrebbe essere accompagnata dalle istituzioni esistenti. Non snobbata nel segno di una falsa modernità ancorata alla visione dispotica di un uomo solo al comando.    

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